Lo spirito aspetta cent’anni, romanzo della scrittrice sudafricana Shubnum Khan, intreccia mistero, introspezione e storia familiare in una narrazione che affronta il senso di colpa, il peso dei legami familiari e i segreti nascosti tra le mura di una casa. Ambientato sulla costa africana, il libro segue Sana, una quindicenne indiana che si trasferisce con il padre in una dimora abitata da vari inquilini, portando con sé il tormento dello spirito della gemella mai nata. La casa stessa diventa il fulcro di un viaggio investigativo che conduce Sana a scoprire frammenti di vita di chi l’ha abitata in passato, attraverso lettere e fotografie.
La casa è molto più di uno sfondo per gli eventi narrati: con i suoi scricchiolii, i topi e gli scarafaggi che si muovono nel buio tra le sue intercapedini, sembra possedere una propria voce, comunicando con il mondo esterno e amplificando l’atmosfera di inquietudine che permea la storia. Questo elemento contribuisce a creare un senso di connessione tra i personaggi e l’ambiente, anche se l’Africa, come contesto più ampio, resta relegata a una presenza marginale. Qualche accenno all’arredo o alla disposizione degli spazi non basta a trasportare il lettore nei colori e nei profumi di questo continente: l’esperienza rimane più mentale che sensoriale.
Dal punto di vista stilistico, il romanzo oscilla tra due dimensioni: una scrittura inizialmente ricercata e evocativa, che sembra rivolgersi a lettori più esigenti, e un approccio più semplice e accessibile man mano che la storia prosegue. Questo cambiamento può risultare disorientante per chi cerca coerenza stilistica, ma rende il testo fruibile a un pubblico più ampio.
Per quanto riguarda i personaggi, essi risultano spesso tratteggiati in modo superficiale, con caratteristiche che li rendono immediatamente riconoscibili ma poco profondi. Ognuno porta con sé un trauma irrisolto, che lo rende enigmatico e apparentemente impenetrabile. Tuttavia, queste sofferenze non si intrecciano mai realmente con la trama o con lo sviluppo del personaggio stesso. Funzionano più come espedienti per dare ai protagonisti una parvenza di complessità, senza mai scendere davvero nelle pieghe delle loro emozioni o offrire una reale evoluzione psicologica. In questo senso, il dolore è più un segno distintivo che una forza narrativa: un dettaglio utile a caratterizzarli, ma privo di peso sostanziale nel quadro generale. Questa costruzione somiglia agli archetipi che si trovano in molti romanzi di genere, dove i personaggi sono "tipi" chiaramente identificabili, i cui tratti essenziali non si allontanano troppo dalla funzione narrativa che svolgono.
In definitiva, Lo spirito aspetta cent’anni è un romanzo con buone premesse narrative e spunti di riflessione interessanti, ma che fatica a mantenere le promesse iniziali. La storia si lascia seguire, ma potrebbe lasciare insoddisfatti i lettori alla ricerca di una maggiore profondità nei personaggi e di un’ambientazione davvero viva e immersiva.
Aggiungi commento
Commenti