Il mio giardino persiano (Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, 2024)

Pubblicato il 11 febbraio 2025 alle ore 18:12

In una Teheran che sembra avvolgere i suoi abitanti in un’immutabile quotidianità, Mahin, una donna settantenne rimasta vedova da decenni, conduce un’esistenza monotona e solitaria. I suoi giorni scorrono in una ripetizione incessante di piccoli rituali: preparare i pasti, prendersi cura delle sue piante, affrontare conversazioni telefoniche con un’amica ossessionata dalla salute e muoversi per la città in taxi per evitare di affaticare le ginocchia doloranti. La sua vita sembra aver perso colore, con la figlia lontana ormai da vent’anni e il senso di isolamento che si fa sempre più profondo.
Tutto cambia dopo un pranzo con le amiche di vecchia data, quando un desiderio sopito riaffiora in lei. Un incontro casuale con Faramarz, un anziano tassista ed ex soldato, apre uno spiraglio nella sua routine. Anche lui è solo, segnato dagli anni e dalle esperienze passate. Tra i due nasce un’intesa fatta di piccoli gesti e di una timida complicità che, pur rimanendo discreta, assume una dimensione rivoluzionaria nel contesto in cui si trovano a vivere.
Come accade in altri film iraniani recenti, come La testimone e Il seme del fico sacro, anche Il mio giardino persiano mette in scena il mondo femminile e la sua silenziosa ribellione contro le restrizioni imposte dalla società. I registi e sceneggiatori scelgono di non adottare un tono apertamente politico, ma fanno emergere il peso della repressione attraverso la storia di Mahin e il suo desiderio di riscatto. Se la trama amorosa può sembrare convenzionale, la forza del film sta nel contesto sociale che permea ogni scena, rendendo tangibile la costante tensione tra desiderio di libertà e imposizioni culturali.

Le regole che scandiscono la vita dei protagonisti sono rigide e opprimenti, al punto che anche i gesti più semplici assumono un significato drammatico. Un bicchiere di vino diventa simbolo di trasgressione e paura, mentre la musica deve rimanere a un volume impercettibile per non attirare attenzioni indesiderate. Persino il giardino, rifugio personale di Mahin e unica fonte di serenità, può trasformarsi in un luogo minaccioso, capace di ribaltare il suo ruolo di spazio intimo e protetto.

Nel film, il giardino diventa il punto di intersezione tra sfera privata e dimensione pubblica. La sua dimensione simbolica si amplifica nella scena in cui Mahin interviene in difesa di una giovane fermata dalla polizia morale perché accusata di non portare correttamente il velo. La sua presa di posizione rappresenta una breccia nel muro dell’oppressione, un gesto di solidarietà che unisce generazioni diverse nella stessa lotta per l’emancipazione.
Quella che inizialmente sembra una semplice storia d’amore si trasforma, nella seconda metà del film, in un crescendo di tensione che avvolge tanto i protagonisti quanto lo spettatore. La narrazione gioca sull’alternanza tra momenti di apparente serenità e improvvise impennate di tensione. Sappiamo che un bicchiere di vino può metterli nei guai, eppure li osserviamo impotenti mentre si concedono quell’attimo di libertà. La musica si fa troppo alta, Mahin e Faramarz ridono, ballano e cantano, ma noi, pur volendo lasciarci trascinare dalla loro felicità, non possiamo ignorare il rischio incombente. Il film ci mantiene sospesi su un filo sottile tra euforia e terrore, fino a un epilogo in cui la bilancia pende inevitabilmente da una delle due parti.
Sotto la superficie di una storia apparentemente intima e personale, Il mio giardino persiano cela una riflessione più ampia sulla libertà negata. La dolcezza di un ballo improvvisato, la gioia effimera di un momento di felicità rubata al controllo sociale, rivelano il contrasto tra la voglia di vivere e il peso delle restrizioni. Il film dipinge con sensibilità la malinconia di un’esistenza che anela a qualcosa di più, ma che si scontra con limiti insormontabili. Una narrazione delicata ma incisiva, capace di lasciare il segno nello spettatore, facendo emergere un senso di empatia profonda per una realtà tanto distante quanto universale.
A riprova delle difficoltà affrontate dal cinema iraniano indipendente, ai registi del film è stato ritirato il passaporto dal governo, impedendo loro di promuoverlo nei festival internazionali. Una misura che conferma quanto la loro opera sia percepita come una sfida al sistema, rendendo ancora più significativo il messaggio di resistenza e speranza trasmesso dalla pellicola.

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