
Tratto dal libro di memorie di Marcelo Rubens Paiva (Sono ancora qui, La Nuova Frontiera, 2025), il film di Walter Salles racconta la storia del padre dell’autore, Rubens Paiva (Selton Mello), ingegnere, politico e attivista brasiliano desaparecido durante la dittatura militare negli anni 70. Il film si concentra in particolare sulla moglie, Eunice Facciolla (una splendida Fernanda Torres), e sulla sua decennale ricerca della verità sulla scomparsa di Rubens.
Il lungometraggio di Salles riesce a raccontare una storia difficile, reale, disperata con grande maestria, senza mai sfociare in eccessi melodrammatici. I momenti di sofferenza sono molti, ma vengono raccontati dal regista con la stessa compostezza ostentata di Eunice, un esempio di donna forte, coraggiosa, che affronta la perdita e il dolore con coraggio ed eleganza anche quando la speranza sembra non esistere più. Salles, amico di Marcelo e frequentatore della casa dei Paiva, ci narra l’assenza, il vuoto incolmabile lasciato dalla ingiusta e incomprensibile sparizione di Rubens mostrandoci il vuoto che regna negli spazi, nelle stanze, nei luoghi ormai spenti della casa, che divengono specchio di un vuoto dell’anima. Difatti, il film inizia raccontando la quotidianità dei Paiva prima della sparizione di Rubens, portato via una notta dalle autorità e mai più tornato, e il tentativo di riconquista di una forma di quotidianità accettabile o almeno apparentemente serena dopo il terribile fatto. E Salles ci riesce pienamente, senza ricorrere a facili sensazionalismi, ma mostrando con commovente naturalezza la dimensione privata, personale della famiglia Paiva, la loro disperata ricerca di una verità che non sia quella imposta dal regime. La spensieratezza delle prime sequenze verrà infatti turbata dalla violenza della dittatura, che si manifesta a poco a poco: inizialmente è un posto di blocco, o una camionetta di militari per la strada, un’ombra fugace che attraverso il volto di Eunice in una foto di famiglia. Poi quella violenza, di notte, irrompe nella loro abitazione, cambiando per sempre la vita degli abitanti di casa Paiva, uno spazio che perde la sua innocenza e spensieratezza, divenendo luogo di dolore e, appunto, mancanza. Tuttavia, in Io sono ancora qui le scene di violenza esplicita, fisica o psicologica, sono poche, ma tutte perfettamente inserite in una narrazione tesa ed equilibrata. In questo senso, la sequenza della detenzione di Eunice, che perde la percezione del tempo e dello spazio a mano a mano che trascorrono i giorni, è di grande impatto emotivo. Nel resto del film, la crudeltà e la sopraffazione del regime agiscono di nascosto, sottotraccia, ed è questo che rende la condizione della famiglia Paiva, e di tante altre famiglie, ancora più spaventosa e dolorosa, poiché è nell’incertezza circa la sorte dei propri cari che risiede il nucleo della sofferenza e, allo stesso tempo, il messaggio di speranza del film.
Difatti, Io sono ancora qui non è un film pessimista, ma è un film che, come tutta la grande cinematografia e letteratura sulle guerre e sulle dittature, ribadisce l’importanza della memoria, della testimonianza, e lo fa fino all’ultima sequenza, ambientata nel 2014, in cui un’anziana Eunice malata di Alzheimer sembra aver perduto ogni ricordo di quel passato doloroso. In realtà, la memoria di Rubens (e di tutte le altre vittime) sopravvive e deve sopravvivere nei discendenti di Paiva, nelle generazioni che verranno e, soprattutto, in noi spettatori, che siamo ancora qui e dobbiamo esserci, ovvero dobbiamo essere coscienti del nostro passato per vivere consapevolmente il presente.
In definitiva, Io sono ancora qui è un film potente, necessario, in cui consapevolezza del male del mondo e la speranza nell’essere umano si fondono, raccontando una storia di sopravvivenza e lotta che indigna, commuove e sorprende.
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