Luce (2024) è il nuovo film diretto da Silvia Luzi e Luca Bellino, fondatori della Tfilm, una casa di produzione indipendente nata nel 2012 e caratterizzata da opere di forte impegno politico e sociale. Il loro sodalizio artistico ha avuto inizio con documentari come La minaccia (2007) e Dell’arte della guerra (2012), per poi evolversi verso la narrazione di storie di finzione sempre legate a tematiche attuali e rilevanti. Dopo Il cratere (2017), il loro primo lungometraggio di finzione che esplora un rapporto padre-figlia dominato da dinamiche disfunzionali, i due registi proseguono con Luce, portando avanti un’indagine sulle relazioni spezzate. Se Il cratere rappresentava il vuoto e la distanza tra i protagonisti, in Luce quel legame è ormai completamente spezzato: il rapporto tra padre e figlia è solo un ricordo.
La protagonista, interpretata da Marianna Fontana, vive da sola con la sua gatta Molly in un piccolo paese montuoso dell’Irpinia. In una delle prime scene, insieme a un amico, tenta di superare il limite imposto da un muro su cui campeggia la scritta “Zona militare limite invalicabile”, inviando un drone con un telefono cellulare e un foglio contenente un messaggio che non ci è dato leggere ma che possiamo intuire essere “da tua figlia”. Sebbene non sia chiaro cosa sia accaduto al padre, il muro sembra delimitare una prigione. Questo piano, apparentemente irrazionale e rischioso, appare del tutto comprensibile una volta immersi nella realtà della protagonista.
La sua quotidianità è segnata dalla fatica e dall’alienazione, scandita da turni in una fabbrica dove si svolge l’inchiodatura delle pelli, un processo intermedio della concia. A differenza delle concerie regolamentate dall’Unione Europea, qui le condizioni di lavoro sono disumane: le operaie, quasi tutte donne, guadagnano appena cinque euro l’ora, mettendo a rischio non solo la loro salute, ma anche la fertilità. Le sostanze utilizzate possono infatti causare gravi danni alle mani e alle ovaie. Le donne che interpretano le operaie, tranne Marianna Fontana, sono vere lavoratrici, selezionate dopo quasi mille provini, come confermato dallo stesso Luca Bellino.
L’ambiente lavorativo descritto nel film è disgregante: manca il lavoro di squadra, le relazioni tra le operaie sono frammentate e la protagonista si muove in totale solitudine. Per prepararsi al ruolo, Marianna Fontana ha lavorato per quattro mesi nella fabbrica, immergendosi completamente in quella realtà. “Per me questo è stato un lavoro molto importante, a livello emotivo, fisico, umano. [...] Non conoscevo la realtà delle fabbriche a Solofra, vicino Avellino. E grazie a questo progetto ho scoperto questa realtà fatta di donne lavoratrici. Ho sentito le loro storie. Sono stata a contatto con loro per tanti mesi. Sono entrata in fabbrica in anonimato. Nessuno conosceva il mio ruolo nel cinema e nessuno era a conoscenza del film. [...] Mi alzavo alle sei del mattino, attaccavo al lavoro con loro e finivo la sera tardi. E quindi sono cresciuta in questi quattro mesi scoprendo anche la ribellione e la rivoluzione che questo personaggio si porta dietro: questa assenza, questa rabbia e questa voglia di prendersi il futuro che in quel momento è buio, e quindi di prendersi quella luce che non ha”.
La protagonista, come una falena attratta dalla luce artificiale di una lampadina, si lascia sedurre dal sogno di un rapporto con il padre. Sa che la persona che risponde al telefono dall’altra parte del muro non è davvero suo padre, ma sceglie comunque di rifugiarsi in quella menzogna. Anche l’uomo, probabilmente un detenuto condannato a una lunga pena, trova conforto in questo legame immaginario, usando la relazione per colmare il vuoto delle sue giornate. Entrambi si abbandonano a un gioco di storie inventate, alimentando un’illusione che dà loro una momentanea tregua dalla solitudine.
L’enigmatica scena finale trova il suo significato in una frase pronunciata da uno dei personaggi secondari: “I gatti sono come i bambini, cercano il latte”. Anche la protagonista, in fondo, è una bambina, in cerca di un padre, di libertà e di emancipazione. Il suo gesto di ribellione con cui termina la pellicola diventa allora l’atto conclusivo di una lotta silenziosa ma potente, con cui cerca di afferrare quella luce che dà il titolo al film.
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