


Dopo l’intenso Walk the line (2005), splendido e dolente biopic sulla vita di Johnny Cash e su sul burrascoso rapporto con June Carter, James Mangold ha deciso di cimentarsi con uno dei più grandi artisti e poeti contemporanei, l’unico cantautore ad aver vinto il premio Nobel, ovvero Bob Dylan.
Il film non ha pretese di esaustività, anche ammesso fosse possibile, considerando la complessa personalità dell’artista, e racconta un momento preciso e puntuale della sua carriera decennale, dagli esordi alla svolta rock-elettrica che fece imbestialire sostenitori e fan della prima ora. Oltre al percorso artistico, il film indaga anche la dimensione personale, privata dell’artista, le sue relazioni altalenanti con la giovane attivista Sylvie Russo, interpretata da un’ottima e misurata Elle Fanning, e con la cantautrice Joan Baez (Monica Barbaro).
Il lungometraggio di Mangold ha alcuni pregi che spesso mancano ai biopic, specialmente quelli su cantanti e artisti in generale: primo su tutti, non vuole essere un’agiografia di Dylan. Il film esalta, ovviamente, la genialità del cantautore statunitense, la sua capacità di leggere la realtà e di tradurla in arte e di essere un grande sperimentatore, ma, allo stesso modo, mette in luce i suoi limiti di uomo, il narcisismo, il carattere difficile, a tratti indecifrabile, tutti elementi che emergono sia nelle relazioni sentimentali che nei rapporti lavorativi. L’altro pregio invidiabile, e che alcuni, inspiegabilmente, hanno considerato un difetto, è la sua compostezza. A complete unknown è un film che emoziona, coinvolge, ma lo fa senza ricorrere a strepiti, scene madri, senza alcuna forma di spettacolarizzazione della figura di Dylan. In altre parole, è un film perfettamente in linea con la personalità del suo protagonista, che per emozionare il suo pubblico non ha bisogno di effetti retorici o fuochi d’artificio: gli basta una chitarra, e la sua inconfondibile voce. La regia di Mangold, allo stesso modo, è di impostazione classica, misurata, equilibrata, tale da non cedere a facili sensazionalismi, e la sceneggiatura è asciutta, essenziale, priva di retorica anche nei momenti più toccanti, quando, ad esempio, Dylan va a far visita a Woody Guthrie (Scoot McNairy), storico cantante folk, mito e modello per lo stesso Dylan. Guthrie, confinato in un ospedale spoglio, malato e ormai incapace di parlare, trova conforto nelle visite di Dylan e in quelle del mentore e amico dello stesso Dylan, il musicista Pete Seeger, interpretato da un Edward Norton che, nonostante la carriera altalenante (negli ultimi anni in particolare), si riconferma uno dei più grandi talenti della sua generazione. Quelle scene intime, sentite, costituiscono dei preziosi frammenti di umanità e riassumono la delicatezza che caratterizza l’intera costruzione del film.
Ovviamente, la riuscita del film, oltre ai dettagli sopra menzionati, dipende in gran parte dall’ottima prova di Timothée Chalamet: il giovane attore, che interpreta meravigliosamente i brani di Dylan in prima persona, ci regala una performance misurata, contenuta ed intensa. Alcuni hanno detto che, quando il film finisce e le luci della sala ci accendono, Bob Dylan non lo conosciamo per niente. Ed è proprio questo l’ultimo aspetto a rendere A complete unknown un biopic che si distingue dalla massa di biopic che ci propinano ogni anno. Difatti, Mangold non ha la presunzione di spiegarci un artista che, semplicemente, non può e non vuole essere raccontato didascalicamente: Dylan è e deve restare un personaggio proteiforme, sfuggente e affascinante allo stesso tempo, o addirittura, come recita il titolo, “un completo sconosciuto” alle persone attorno a lui e, forse, ci suggerisce il film, anche a se stesso.
Aggiungi commento
Commenti